Con la gagliarda interpretazione di Ugo Dighero, venerdì 29 gennaio 2016, ore 21.15, arriva a Montepulciano il capolavoro del premio Nobel Dario Fo. L’ex Broncoviz Dighero sceglie due grandi monologhi rivisti nella sua chiave personale: “Il primo miracolo di Gesù bambino” e “La parpàja topola”. Si tratta di due tra i brani più famosi del repertorio di Fo che uniscono un grande divertimento ad un forte contenuto, il tutto condito con la leggerezza e la poesia tipici dei racconti dell’autore italiano più rappresentato nel mondo. Il ritmo incalzante e l’interpretazione simultanea di tutti i personaggi delle due storie, consentono a Dighero di mettere in campo tutte le sue capacità attoriali dando vita ad una galoppata teatrale che lascia senza fiato.
IL PRIMO MIRACOLO GESÙ BAMBINO
Il monologo è tratto dallo spettacolo “Storia della tigre e altre storie” del 1977. Dario Fo costruisce questa storia prendendo spunto dai “Vangeli apocrifi”, quell’insieme di storie legate alla vita di Gesù e degli apostoli, che furono alla base di tutta la letteratura paleocristiana. Il vangelo apocrifo dal quale è ricavata la storia è quello detto “protovangelo”, cioè quella parte dei vangeli in cui si narra della vita di Gesù Cristo dalla fuga in Egitto fino al momento in cui torna nel deserto. Nei quattro vangeli ufficiali non si parla di questo periodo che comprende vent’anni della vita di Cristo. Il vangelo apocrifo dal quale è tratto il monologo è detto “Proto Matteo”. La narrazione parte con la descrizione del viaggio dei Re Magi verso Betlemme e del loro arrivo alla capanna dove Gesù, Giuseppe e Maria sono circondati dai pastori che recano doni al bambin Gesù. Ma ecco arrivare l’angelo che annuncia la collera di Erode.
“Fuga in Egitto!!!” esclama l’angelo.
“Di già?!?” replica sconsolato Giuseppe.
Durante il viaggio Gesù, Giuseppe e Maria si fermano a Jaffa (…si, quella dei pompelmi) e cercano una casa dove alloggiare.
Trovano una stamberga in periferia più malridotta della stalla di Betlemme.
Giuseppe e Maria vagano per la città cercando lavoro. Gesù rimane da solo in mezzo alla strada e tenta di fare amicizia con i ragazzini del posto per giocare con loro. Purtroppo viene deriso inquanto “foresto”, un povero emigrante figlio di emigranti che parla un dialetto incomprensibile. Gesù si trova nella condizione del “diverso”, cerca di vincere il rifiuto che gli altri ragazzini gli oppongono e, pur di farseli amici, di riuscire a giocare e ridere con loro, decide di compiere un piccolo, grazioso miracolo. Subito i bimbi entusiasti lo eleggono ” capo dei giochi “, ma quel divertimento assurdo e fantastico viene distrutto dall’antipatico figlio del padrone della città. E’ la chiara allegoria del potere che non sopporta che la gente, soprattutto i semplici, abbiano a godere dell’immaginazione e della fantasia. Davanti a tanta cattiveria il piccolo Gesù, dopo essersi consultato con il Padre, ha una reazione inaspettata. Il monologo ci presenta un Gesù inedito di inconsueta umanità.
LA PARPÀJA TOPOLA
Il monologo è tratto da “Il fabulazzo osceno” del 1982.
Per “osceno” l’autore intende tutta l’area dell’interdetto, del censurato dalla classe dominante : il sesso, i genitali e le altre componenti di un repertorio scatologico che è sempre stato, per la repressa inventiva popolare, il patrimonio della fantasia e della libertà trasgressiva. L’osceno proposto da Dario Fo è sì grottesco ma, allo stesso tempo, lirico, lunare, sublimato nel linguaggio e nel gesto e mai lubrico. Il brano è liberamente tratto da un fablieux del 1100 circa del nordest della Francia. Narra di un giovane e sempliciotto capraio, Giavan Pietro, divenuto improvvisamente ricco per le ricchezze lasciategli in eredità dal suo padrone. Costui, unico contatto umano di Giavan Pietro,soffriva di una specie di idiosincrasia per le donne ed era in sostanza un misogino paranoico. Il povero pastore, terrorizzato dai racconti del padrone, appena vedeva apparire delle ragazze si andava a nascondere accucciandosi in mezzo alle pecore. Ovviamente la notizia della sua ricchezza si diffonde velocemente e il poveretto si trova circondato da aspiranti spose. Tra tutte ha la meglio Alessia che con la sua bellezza vince le paure di Giavan Pietro. La splendida ragazza non disdegna i favori di Don Faina sotto lo sguardo compiacente della madre, la Vulpassa. Quest’ultima obbliga il prete a trovare un marito alla ragazza prima che sia troppo tardi ed ecco entrare in gioco il giovane, ricco pastore. Questa chiave di affibbiare ad un tontolone una giovane da tenere sempre come amante si ritrova in altri racconti nel Medio Evo e più avanti ancora. La prima notte di nozze tutto viene combinato perchè il povero Giavan Pietro rimanga a bocca asciutta e faccia posto al prelato, ma l’ingenuità del capraio tocca a tal punto il cuore della ragazza che tutto si conclude in suo favore trasformando il tema ” osceno ” della storia in una favola poetica di grande purezza e di altissima poesia.
IL LINGUAGGIO
Fondamentale spendere due parole sul linguaggio utilizzato da Dario Fo per la narrazione di questi due monologhi. Si tratta di un miscuglio di dialetti della zona padana nel quale troviamo spesso termini arcaici e sconfinamenti nel grammelot. Il grammelot è un assemblaggio di suoni privi di senso apparente ma talmente onomatopeici e allusivi nelle cadenze e nelle inflessioni da lasciar intuire il senso del discorso. Con esso si può parlare un finto francese, uno spagnolo fasullo, un inglese inesistente con la certezza di essere compresi (…ammesso di avere un buon talento d’attore…). Il linguaggio ottenuto in tal modo non è una semplice rivisitazione del dialetto ma un’autentica creazione originale dell’autore che si basa sulla conoscenza approfondita delle morfologie e delle ritmiche dialettali e sulla consapevolezza di uno strumento linguistico elaborato dagli antichi giullari.